Ripenseremo ancora - Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche

Vai ai contenuti

Menu principale:

Ripenseremo ancora


I nostri pensieri, come la nostra vita cambieranno.


Valeria Graffi



Codogno le nuvole dagli alberi che già oggi è primavera. Piemonte esaurito, non il mio. Coppa l’Italia in mezzo e dai le carte in senso orario. Cori ad angoli pitturati di strada, carri, maschere sul viso in versione Man Ray. Automatismi psichiatrici privi di pensiero. Prima di uscire ricorda di lavarti le chiavi e attento alla schiena: domenica riapre la caccia alle streghe.

Davide Orlandi

         L’ABITUDINE


Più d’ogni altra cosa, temo l’abitudine. Si insinua nella nostra vita regalandoci sicurezza, ma al tempo stesso offusca la bellezza e spegne ogni velleità del nuovo, ci rende vecchi anzitempo. L’essere umano, pur di sopravvivere, si è sempre adattato – e assuefatto – alle situazioni più varie, anche spiacevoli, ha accettato la mediocrità, la meschinità, l’ingiustizia , persino la schiavitù (nella Bibbia, il Libro dell’Esodo testimonia come gli Israeliti, liberati dalla schiavitù, alle prime difficoltà giungano a rimpiangere la loro condizione di schiavi in Egitto, gravosa e avvilente, ma che in qualche modo dava loro la certezza di conservare la vita). Il nostro tempo quotidiano è scandito dalle abitudini, e quanto sia difficile mutarle lo stiamo sperimentando in questo momento nel  quale abbiamo dovuto ripensare la nostra vita a causa di un virus che ci è ancora per molti versi sconosciuto. Oggi ci siamo abituati a vivere prevalentemente entro le mura delle nostre case e quando ne usciamo (il meno possibile) ci muoviamo frettolosi, incontriamo gli altri senza guardarli realmente, ben attenti a evitarli o quanto meno a mantenere la “distanza sociale” quantificata in almeno un metro  (ma c’è chi afferma non sia sufficiente). La distanza viene percepita come mezzo di protezione e non di separazione, non come una ferita, e così talvolta anche la mancanza degli abbracci, delle carezze e delle strette di mano.
È questo che ci aspetta, d’ora in poi? In altre parole, mi chiedo: quando torneremo a una vita “normale”, sentiremo ancora il bisogno profondo di contatti sociali più stretti, ravvicinati e “caldi”, saremo ancora capaci di chinarci (anche nel senso fisico del termine) su chi è debole per aiutarlo, per sollevarlo oppure, abituati alla distanza, lo scanseremo e lo lasceremo, solo, al suo destino?


Stefania Raschillà


Coronavirus tra paura e contagio: un aiuto dalla filosofia

La filosofia può accorrere in aiuto in questo momento di terrore, in cui si ha a che fare con i problemi che non hanno una conclusione nell’immediato, poiché offre soluzioni che sono a portata di mano, come la possibilità di convogliare le risorse umane in tolleranza, pazienza e capacità di sostenere l’attesa.
La filosofia può farlo proprio perché si occupa del senso e del significato dell’esistere da una specie di eternità, senza porre vincoli alla riflessione e all’umano desiderio di resistere nonostante tutto.
Pericolo Coronavirus. Come evitare di essere contagiati emotivamente dalla paura

In questo momento critico, a causa della pandemia da COVID-19, per ogni persona diviene essenziale seguire gli aggiornamenti sul numero dei guariti, sia per tenere sotto controllo la situazione, sia per allontanare la paura e l’angoscia per il futuro.
In verità ogni giorno i dati tradiscono la fiducia personale mostrando un andamento del contagio che non ci si aspetta, attraverso numeri che mettono a dura prova la credenza nel miglioramento. Ed è così che lo spavento travolge negativamente le persone, incupendo le giornate, già avviate con difficoltà in un quotidiano che si dispiega al chiuso.
Tuttavia, è possibile fermare il malessere ed evitare che la paura dilaghi, sostenendo il morale e l’attesa di chi vive insieme a noi, fino ad arrivare alle persone con cui non condividiamo il quotidiano ma che in qualche modo sono a noi in questa terribile vicenda. Restituire al quotidiano di ognuno nuova linfa attraverso l’immaginazione e la creatività può contribuire a sopportare il disagio e a contenere i pensieri negativi che hanno come effetto l’ansia e l’angoscia.
Lo possiamo fare attraverso la coltivazione della capacità catartica delle arti, della cultura e dell’inventiva che ancora una volta e sempre, ci rendono più resilienti e più capaci di temperanza.
Protrarre più a lungo possibile questa opportunità di tener lontana la paura diviene ogni giorno un’emergenza nell’emergenza.
L’importanza di continuare ad alimentare la speranza facendo rete

Molte persone ogni giorno mettono al servizio degli altri la loro competenza e il loro lavoro, prima di tutto il personale sanitario e parasanitario, ma anche tutte quelle persone che, al di fuori dagli enti preposti alla tutela della salute, contribuiscono all’efficienza del nostro paese.
Altri sorreggono la comune speranza donando, intrattenendo e condividendo quello che possono e che reputano possa esser d’aiuto a qualcun altro che attende. C’è chi si offre attraverso un’immagine sui social, un articolo, un video, una canzone o qualcosa di personale, insomma portando al servizio degli altri ciò che possiede, anche solo un messaggio di vicinanza e di presenza ad un numero inaspettato di persone.
La speranza si alimenta a partire dai luoghi, ovvero dalle abitazioni illuminate di pazienza, dove le abitudini personali sono messe in un angolo per far posto ad un tempo sospeso che chiede sacrificio ed attesa. Oggi attraverso la rete stiamo riuscendo a farlo, sfruttando la capacità di creare nuove opportunità grazie al potere dell’immaginazione e della virtuale vicinanza.
La speranza si alimenta attraverso il ripensamento degli spazi, non solo di lavoro ma anche interiori, dove si tiene ferma la volontà di resistere a dispetto di tutto.
La speranza si alimenta portando all’esterno l’energia positiva per sostenere chi soffre, ma anche per ampliare l’orizzonte di pensiero di ognuno, affinché non diventi anch’esso un luogo poco sicuro, come ormai lo sono la vicinanza e le nostre strade.
La sensazione che è possibile venire fuori dalla pandemia serpeggia nell’etere attraverso una comunità che si fa rete per non soccombere sconfitta. L’augurio è che continuino ad embricarsi, mai indomite, la vitalità e l’iniziativa personale, in una disposizione d’animo che non lasci il posto alla rassegnazione, cosicché si possa continuare a navigare a vista nonostante la tempesta.
La filosofia dell’attesa, un aiuto per allontanare la paura
Quando le scienze dure non possono darci una risposta nell’immediato, l’angoscia prende il sopravvento per l’incertezza che domina gli eventi. Ecco che allora un aiuto può arrivare dalla filosofia, un ormeggio sicuro, ben poco considerato negli ambienti di lavoro, ma che per fortuna, e a dispetto di tutto, permea le nostre vite in maniera imprescindibile.
La filosofia si occupa delle domande, si prende cura del senso delle questioni ultime, in sostanza si impiega in tutto ciò che si offre alla meraviglia del nostro intendimento, soprattutto, e in particolar modo, quando si ha a che fare con problemi che non hanno una soluzione nell’immediato.
In questo momento di pandemia da coronavirus ogni persona è costretta a fermarsi, è obbligata a perdere tempo, e a stare a casa. Ma forse è possibile cogliere tutto questo come un’opportunità reale per creare una cultura dell’attesa in maniera congiunta. Il tempo che rallenta offre infatti ad ognuno una nuova occasione, e cioè quella di poter realizzare qualcosa di utile per se stessi, per la propria famiglia e per la comunità. Nei momenti di crisi, è facile che venga meno la speranza nella salvezza e nella rinascita, ma la filosofia mostra come l’uomo abbia saputo ripensare in ogni epoca il concetto di umanità, restituendole un significato possibile nonostante la brutalità degli eventi e l’inefficienza della scienza e della tecnica.
Pensare al momento presente come ad un destino è ciò a cui siamo chiamati in questo periodo, infatti ognuno nel suo ambito e nelle sue possibilità può contribuire a restituire ogni giorno nuova linfa all’esistenza, attraverso quella libertà che rimane nonostante i divieti: la libertà di reggere nonostante tutto.
Oggi più che mai c’è bisogno di sostegno, di buoni propositi e di pensieri innovativi che alimentino l’umano desiderio ad esistere benché sospesi nelle nostre incertezze. Oggi più che mai ognuno può contribuire affinché tutto questo succeda.
In questo momento di bisogno possiamo attingere alle scienze sociali, alla medicina narrativa, all’arte e alla musica, forme di vita quest’ultime che hanno il potere di andare oltre l’ineluttabilità degli eventi, scavalcando il dolore e sospendendo per un attimo la disperazione.
Continuare a nutrire gli animi delle persone che vivono con noi, ma anche quelli di chi non conosciamo, sostenendo l’iniziativa positiva, supportando la motivazione e coinvolgendo gli altri in una danza sociale, anche se da lontano, è un potente mezzo che può tenere al sicuro la speranza nel futuro e la buona voglia di crederci ancora.
Facciamolo per noi e per chi sta facendo in modo che si possa ancora pronunciare la parola domani.

Loredana Di Adamo


La paura, il tempo e la speranza

La paura, come condizione esistenziale di fragilità dell'essere umano, è preziosa nel mettere in atto meccanismi di difesa , in caso di pericolo, ma è pericolosa quando diventa una minaccia, che non si riesce a dominare.
La paura ci rende vulnerabili e indifesi, genera il senso di inadeguatezza e impotenza,che priva l'uomo della propria libertà. I media infondono paura e preoccupazioni, enormemente amplificate, rispetto ai pericoli reali; sono lo strumento attraverso il quale ci costruiamo un immagine del mondo, definiscono la nostra percezione del pericolo, volutamente alterata.
Una pseudo-politica che alimenta la paura, deformando la realtà, annientando il senso critico e  compromettendo la capacità di giudizio.
Tutto questo è funzionale a renderci manovrabili.
Orientare la psicologia collettiva nella direzione della paura e dell'ansia consente di controllare l'esistenza delle persone e di isolarle, dove c'è paura non c'è relazione, e dove non c'è relazione è facile dominare.
Una società che ha paura è influenzabile, da qui l'interesse di amplificare ogni percezione di pericolo e di rischio. La mancanza di coraggio e di fiducia, ci spinge a rinunciare di assumere ogni responsabilità, preferendo essere allineati a un'idea dominante, rifiutando di prendere una propria posizione, contraria al pensiero comune e diffuso, senza difenderci da chi ci vorrebbe sottomessi e obbedienti, incapaci di seguire il nostro pensiero.  La cultura della paura indebolisce la libertà, frantuma i legami umani, lo spirito di solidarietà e di cooperazione.
In un contesto caratterizzato dalla contingenza e dall' impossibilità di controllare gli eventi, il tentativo paradossale di eliminare qualsiasi rischio dalla nostra esistenza, produce diffidenza e infine sfocia nell'intolleranza.
Il peso della paura dipende dal ruolo che l'essere umano le permette di avere, solo recuperando la speranza e la fiducia nelle capacità dell'uomo di risolvere i problemi e migliorare la società in cui si vive, si interrompe il circolo vizioso, ripristinando la naturale solidarietà umana.
Il rischio maggiore è il contagio della paura.

Il tempo è la dimensione nella quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi.
Attraverso il tempo si struttura la nostra esistenza, non è solo oggettivamente misurato, ma soggettivo; è una nostra percezione, che riguarda la nostra esperienza, è la nostra mente che  attribuisce un senso al tempo, lo riempie di significato e di valore.
Obbligati a subire il peso degli improvvisi cambiamenti del mondo che ci circonda, carichiamo il futuro di illusioni e aspettative, programmiamo e pianifichiamo per allontanare la finitudine del ciclo vitale, per esorcizzare la paura della fine, per neutralizzare la nostra vulnerabilità, in una faticosa rincorsa della felicità, dove essa non è, nella dimensione futura.
La quotidianità, con i suoi rituali diventa un tempo perso, che ci sottrae all'etica del progettare. Tralasciando il presente, perdiamo di vista l'effettiva priorità delle cose, sospesi tra la malinconia del passato, nostalgia di un tempo che non ritorna, dove il tempo viene subìto e non vissuto ; e la speranza, avvolta dall'angoscia per l' imprevedibilita`del domani, dominati dall'impazienza e Emanuela Trottadall'intolleranza dell'attesa. E`questa frenesia che svalorizza ogni attimo di pausa e di silenzio, avvertito come tempo inutile, mentre saturare il tempo permette di non avvertire le emozioni ed evitare il contatto con sé stessi, il più problematico, poiché non c'è possibilità di sottrarsi all'analisi impietosa ed autentica, che emerge dall'incontro con sé stessi.
Il tempo è il valore più prezioso, la felicità è nelle emozioni, e le emozioni esistono nel presente, nell'attimo in cui abbiamo coscienza di percepirle. Il tempo dovrebbe essere impiegato a rideterminare l'effettivo valore delle cose e ristabilire le priorità.
La consapevolezza dell'inesorabile scorrere del tempo e della precarietà della vita, dovrebbero essere monito costante di non sprecare il tempo, di utilizzare al meglio questa risorsa che non è illimitata e che non è recuperabile.

La speranza è tensione esistenziale verso un modo migliore di esistere,è la fiduciosa attesa in qualcosa che non dipende da noi. Se il futuro è positivo, se in esso è la salvezza , è sufficiente aspettare, attendere, come se non avessimo alcun potere di modificare la realtà. La speranza cristiana che dà la forza di attendere un miglioramento della sorte e la fiducia che il male passerà, genera passività, falsando in merito la rassegnazione vile, distoglie dalla concentrazione sull'immediato. Il termine assume un'accezione negativa, diventa fonte di debolezza, una trappola a cui aggrapparsi per andare avanti, una lente che distorce le immagini, causando un'interpretazione erronea della realtà.
Se la speranza passiva è quella che mi rende attendista, che produce impotenza, delegando a qualcun'altro la responsabilità della realizzazione di ciò che spero ;la speranza attiva mi rende fiducioso nel raggiungimento di un obbiettivo, è la consapevolezza della capacità di fare, è quella che mi spinge all'azione.
La speranza crea la possibilità di vivere il tempo in maniera autentica.
Nel presente l'uomo percepisce e comprende  il mondo, intraprende le decisioni, concretizza le scelte. L'adempimento della speranza è nel futuro. Senza di essa l'uomo è prigioniero delle situazioni, del tempo e del luogo. L' uomo supera le difficoltà, vince la paura e il dolore, grazie a lei.
La speranza come aspettativa di una condizione migliore, connessa al tempo ed al desiderio, condivide con l'attesa la proiezione verso il futuro , cui si rivolge, non è certezza, è un tendere, non è la consolazione dei poveri e dei deboli che restano inerti ad aspettare che le cose cambino, ma è concreta forza di voler costruire la realtà,senza tracce dell'ansia, dell'inquietudine e delle insicurezze che caratterizzano l'attesa.
Siamo noi che andiamo incontro al tempo e poniamo le basi per  nostro futuro, concretamente e con responsabilità, intesa come capacità di rispondere delle proprie scelte, cogliendo le occasioni che si presentano con impegno e motivazione.
La speranza, così, non è illusione, ma apertura alla consapevolezza di resistenza, è apertura alla vita.


Emanuela Trotta



Come cambieranno i nostri rapporti interpersonali?

Un tempo fare la spesa era uno dei miei passatempi preferiti, da fare con calma, ammirando i colori sui banconi della frutta, assaporando con il naso, libero da costrizioni, i profumi di pane e focacce, scegliendo i prodotti in base al prezzo per risparmiare, leggendo attentamente le etichette con il fine di boicottare le aziende eticamente non irreprensibili, guardando nel carrello degli altri per capire le loro abitudini alimentari, gli stili di vita delle persone che ci circondano, ma oggi è cambiato tutto. Ieri sono uscito a fare la spesa, l’unico lusso che possiamo permetterci di questi tempi per provare a pensare di tornare quanto prima alla normalità, e sarà perché la mascherina mi appanna gli occhiali, sarà perché il fatto di mantenere un metro di distanza dagli altri mi manda in confusione, ma devo dire che questa operazione non mi piace più, è diventata un’esperienza ansiogena, mi sono accorto di avere paura della persone.
È duro pensarlo, ma è così, io ho paura delle persone. Non riesco ad immaginare come sia stato difficile per chi si trovava a lavorare ancora gomito a gomito con gli altri quando la pandemia era stata già annunciata, costretto da un sistema economico che bada più al profitto dell’azienda che alla salute dei cittadini. Tuttavia, nell’unica occasione più o meno libera che ci è rimasta di incrociare gli altri, cioè nei supermercati, la paura dell’altro diventa palpabile. Appena l’ingestibile carrello stracolmo di viveri e derrate di qualcun altro si avvicina troppo a te, sei costretto a virare bruscamente, a girarti dall’altra parte, a dargli le spalle per cercare di non respirare la sua aria, che magari è contagiata e nemmeno lui o lei ne è consapevole. Solo da lontano gli sguardi si possono incrociare, perché solo gli occhi restano liberi dalla deturpazione del nostro volto operata dalla varietà di mascherine disponibili: sono sguardi attoniti, increduli, smarriti, intenti in un’operazione da concludere velocemente, perché è diventata veicolo di contagio e quindi altamente rischiosa.
Ci sono delle interessanti ricerche sulla distanza interpersonale che vanno sotto in nome di prossemica, le quali analizzano i gesti, i comportamenti, gli spazi e le distanze all’interno della comunicazione umana. Esse distinguono una distanza intima di 45 centimetri da una distanza personale, fino ai 120 centimetri, e poi una distanza sociale e una distanza pubblica; si tratta di spazi che variano anche a livello culturale, nel senso che esistono delle culture che accorciano di molto quella intima, come quella araba, e altre che la dilatano notevolmente, come quella giapponese, almeno così riferiscono gli studi interculturali. Ebbene, una delle conseguenze della diffusione globale del virus, che è giunto ormai perfino in ogni singola isola sperduta degli oceani Pacifico, Indiano e Atlantico, sta nel fatto che per legge si è stati costretti, in nome di un coatto distanziamento sociale, ad annullare sia le differenze culturali sia le differenze tra le varie tipologie di relazioni, imponendo, ormai noi saremo costretti a dire d’ora in poi per DPCM, una distanza interpersonale di 1 metro, circostanza che, alla lunga, potrebbe condurre anche a ridisegnare e livellare i comportamenti umani e sociali su tutta la superficie del pianeta Terra.
E, allora, per ovviare alla paura degli altri, si ripiega nella situazione più congeniale, si torna a casa e si tira un sospiro di sollievo, qui si è al sicuro. Le mura di casa sono diventate il modo per sconfiggere l’angoscia di un pericolo diffuso, di un pericolo che è veicolato dall’altro, che è dappertutto perché cammina con le gambe di coloro che sono all’esterno, di cui non conosci le frequentazioni, gli spostamenti, fossero anche fratelli, sorelle, genitori, cugini, che vivono in altre abitazioni e sui cui è legittimo dubitare. La casa, invece, ci dicono tramite i DPCM, è sicura, almeno dal contagio del virus, ed è bello riscoprire quella dimensione casalinga, vivere finalmente l’affettività in maniera piena, prolungata, impegnandosi, come si vede ormai dappertutto nei social, a preparare pietanze insieme ai bambini, a giocare, a parlare, accedendo finalmente alla distanza intima.
Eppure, non riesco a non pensare in questi giorni, per una personale predisposizione alla tragedia, lo ammetto, a tutti quei difficili rapporti familiari che si reggevano su una condivisa separazione, pur vivendo sotto lo stesso tetto, delle esistenze. Penso a chi tra lavoro, corsetta, calcetto e cena con colleghi conduceva una vita tutto sommato serena, in equilibrio, limitando al minimo le frequentazioni familiari al fine di far funzionare tutto, e oggi si ritrova in una clausura forzata che rasenta la prigionia esistenziale di esseri umani costretti, fino a nuove disposizioni del DPCM, all’infelicità.
È chiaro che si tratta di una situazione temporanea, un mesetto, si diceva, e poi torneremo alla normalità, ma se non dovesse trattarsi proprio di un mesetto? È chiaro che l’unico modo per neutralizzare definitivamente il virus è iniettarci un siero, un vaccino e tornare alla normalità, ma se non riuscissimo a trovare il vaccino? E se tutto ciò dovesse protrarsi a lungo, diciamo anche per diversi mesi, anni, con ritorni di fiamma, recidive e recrudescenze provenienti da altre zone del mondo? Chissà se sarà l’economia a scoppiare per prima o le relazioni familiari, io penso le seconde e adesso capisco perché gli americani, che sicuramente mi battono in quanto a tragicità nella visione del mondo, si siano precipitati a comprare armi.


Michele Lucivero


IL PENSIERO NELLA PERIFERIA DEL MONDO


La casa il simbolo umano della sicurezza e dell'appartenenza al mondo è diventata in
questi giorni il luogo di protezione dei nostri corpi. C'è qualcosa al di fuori del bordo
della nostra porta, in un angolo nascosto potrebbe improvvisamente colpire, e non è
un virus, è la paura. Dinanzi ad una primavera che con tutta la sua indifferenza
continua a manifestare il risveglio della vita, la specie umana subisce una battuta
d'arresto, il suo adattamento biotico si blocca. Ma il nostro pensiero viaggia fino a
perdersi nei meandri di se stesso. Così cerchiamo di proiettare una paura invisibile su
elementi visibili. Perchè il pensiero arriva a tal punto ? Il nostro adattamento biotico
implica la possibilità di poter agire sul mondo, il nostro pensiero, ben lungi
dall'essere astratto è l'energia che muove l'azione, ma tale energia sembra sconvolta
dagli eventi che stiamo vivendo.
Tuttavia, essendo lontano dai ritmi incessanti delle dinamiche sociali, l'essere
umano è costretto a ripensare la sua vulnerabilità, e soprattutto a riconcettualizzare il
suo posto nel mondo. L'irruzione di un virus rompe definitivamente nella storia
occidentale il modello simbolico espresso dall'Uomo vitruviano: l'uomo al centro del
cosmo, sembra adesso costretto a rimanere nella sua periferia. La nostra attenzione è
tutta spostata su un virus, ma a farci paura è la vulnerabilità umana. In un periodo
storico in cui tutto viene letto attraverso i canoni del modello taylorista, insidiatosi
nella parte occidentale del globo, l'uomo ritorna a se stesso. L'essenza umana si
scopre, e nella sua nudità ripensa all'ancestrale collegamento con la morte. Siamo
talmente incapaci di accettare la nostra impotenza, che tentiamo di evadere piuttosto
che arrenderci al necessario cambio di prospettiva, a cui questo virus ci conduce.
Occorre dunque pensare all'uomo non più come elemento superiore nella scena
del mondo, ma come colui che deve riprendere coscienza della filosofia stoica, la
quale mirava ad una armonia profonda tra uomo e natura. Proprio per questo la prima
riflessione necessaria è di natura ecologica. Il rispetto per i ritmi delicati del ciclo
naturale dovrà innervare tutta la filosofia successiva. La seconda riflessione deve
risvegliare la politica, abbiamo bisogno di un ancoraggio alla filosofia di E. Lévinas,
cioè di una politica fondata sempre più sull'etica, e non sulla speculazione economica.
Tutto ciò che ci spaventa non è più il virus, ma la nostra incapacità di
fronteggiare il lento trascorrere del tempo e il contatto con le nostre cicatrici emotive.
La nostra razionalità collide sempre più sulla parte emotiva dell'humanitas. Non c'è
alcun motivo di perdere la speranza. Il tempo trascorso in casa deve condurci ad
assaporare il qui e ora, la consapevolezza della gratuità dell'essere e della comunione
con il risveglio della natura, a cui assistiamo quando scorgiamo lo sguardo alla
finestra. La fiducia nella vita, nella sua forza silenziosamente dirompente, ci sprona
ad abbracciare la speranza nel futuro. Sempre più consapevoli che dobbiamo avere
paura del virus, ma non del virus della paura. Nello scorcio di un incalcolabile e
imprevedibile futuro si avverte l'esigenza di ripensare il ruolo della Filosofia nelle
scelte etiche e politiche future, e come guida indispensabile delle generazioni che
verranno.

Corleto Rocco Michele


Esorcizzare la paura


È inutile nasconderselo. Non c’è nulla di cui vergognarsi. In questi giorni di isolamento forzato, ancor più che il coronavirus (ché se si sta chiusi in casa è praticamente impossibile contrarlo), il nemico da battere è la paura.
E non si tratta di essere o apparire più o meno forti: la paura assale tutti, chiunque e comunque; per quanto si possa negare anche a se stessi, al di là di ogni possibile dissimulazione, è un sentimento con il quale fare i conti, che non si può evitare di pensare. Abbiamo paura per noi, per le nostre vite, per i nostri figli, i nostri parenti, gli amici ed i semplici conoscenti. Abbiamo paura per il nostro futuro.
È una paura forte e legittima che deriva non solo dal mistero legato alla presenza di questo nemico invisibile e subdolo, che quando si manifesta è ormai troppo tardi, ma che è alimentato dal fatto che nessuno di noi (nemmeno medici e scienziati) sa quando tutto questo finirà, non sa quando queste nostre quarantene produrranno il loro effetto, non sa quando questa clausura non sarà più necessaria.
Angosciosi interrogativi assalgono le nostre menti. Quanti saranno i portatori inconsapevoli di questo virus? Arriverà alle nostre porte? Davvero lo si può fermare chiudendo città, aeroporti, stazioni, vie e piazze, mettendo in quarantena milioni di persone?
È il ritorno tragico ed il compiersi di una maledizione antica. Ritornano alla memoria le pagine manzoniane studiate svogliatamente a scuola. Ci si ricorda di quelle di García Márquez. E poi Kafka. Si rivedono come spettri i monumenti che in mezza Europa richiamano epidemie lontane ed oggi invece tanto vicine: la peste ed il colera che hanno distrutto popoli e nazioni con ineffabile violenta rapidità. Qualcuno ricorda la “spagnola”, altri l’ebola.
Ci si scopre impreparati, psicologicamente e culturalmente. Perfino le fedi vacillano. Intanto, l’epidemia si tramuta in pandemia e veicola il terrore, alimenta incubi.
Pandemia. Pan e demos. Tutto e popolo. Pandemia. Che appartiene a tutto il popolo. Una malattia, un cataclisma, una catastrofe. Si ammalano i corpi. L’ora della disperazione è la più nera. E si ritorna a guardare in faccia il dolore.
Ed allora, tra un passato a cui non si può più tornare, un presente che al momento appare terribile ed un futuro che non sappiamo immaginare (peggiore o migliore?), come reagire? Cosa fare? Come comportarsi?
Per fermare l’epidemia abbiamo bisogno di cambiare praticamente tutto quello che finora eravamo abituati a fare ogni giorno: il nostro modo di lavorare, socializzare, fare shopping, pensare alla nostra salute, educare i nostri figli e prenderci cura delle nostre famiglie.
Gli storici ricordano che le grandi epidemie, così come le guerre e le carestie, hanno sempre avuto la forza di scuotere intere civiltà provocandone una rigenerazione morale e spirituale dovuta ad una vera e propria reazione alla rottura della quotidianità, alla sospensione delle regole, all’esposizione ad una morte incombente.
D’altronde, ci hanno sempre ricordato che la parola “crisi” (di origine medica) nasce per indicare quel momento in cui un certo modo di vivere viene sostituito con un altro perché divenuto nel frattempo insostenibile. E la parola “crisi” significa anche “separare, decidere”: sinonimi in chiave medica che servono per spiegare il “momento critico”, quello in cui si deve scegliere tra la vita e la morte, ovvero tra una riapertura verso il futuro ed una distruzione del presente, che è poi all’origine della crisi.
Siamo in grado di scegliere? Abbiamo il coraggio e la forza di fare questa scelta?


Maurizio Bonanno


Vite sospese, vite che ritrovano la dimensione di riscoprire se stessi,in famiglia/famiglie a distanza, separate o unite, che si ritrovano ,altre che si finiscono di perdere, altre che  continuano  migliorandosi ,padri o madri che assaporano il vivere pienamente con i figli,altre che i figli li subiscono. Alzarsi,senza darsi scadenze,senza l'osservare l'ora,nella preghiera personale.Essere consapevoli che ciò che davamo per scontato tale non è,consapevoli che il tempo è definito dall'incertezza .Per chi si ammala la cosa più brutta non è l'incertezza del vivi o muori,ma come muori ,solo con te stesso ,privo di conforto ,privo della tua stessa dignità.Per chi rimane il vuoto ,il freddo e la tristezza nel cuore,una guerra con un nemico invisibile,un nemico tremendo ,che non fà differenze,ne di bandiere,ne di colore,duro da battere ,millesimale di grandezza ma potente come un grande esercito,non lo vedi,non sai se lo eviti .Medici in prima linea soli,angeli e agnelli da sacrificare,si battono fino allo stremo ,concreti ,concreto è l'amore di chi si dona altruisticamente.Governi  messi a servire popoli, che non servono,incapaci di ascolto.Una tenebra,avvolge il cammino ,sospesi,progetti rimandati,rimandato il lavoro insicuri per il domani.Denaro,petrolio,progresso,crescita, tutto risulta inutile, tutto rimane in secondo piano, scuola ,socialità affidata a un video,o a un telefono,amori vissuti a distanza,fidanzati divisi da luoghi diversi, uniti da un messaggio, questo è reale, ma tutto appare surreale. Questo ci farà gustare più saggiamente il ritorno alla libertà,ci farà affrontare i problemi seri,e scartare i problemi inventati, ci darà il senso di una realtà perduta ,ci insegnerà a vivere in virtù,ci insegnerà a eliminare il superfluo ,guariremo dal virus certamente ,ma guariremo da noi stessi e da una società deteriorata?  

Stefano Giannoni


La condizione di emergenza che l'Italia e il mondo vivono induce ad una molteplicità di riflessioni. Ne vorrei sviluppare due. La prima, che si potrebbe definire di carattere “ontologico”, è che abitare la realtà senza prestare ascolto alla sensibilità della Natura significa offenderla. Il mondo vuole e deve essere compreso nel suo senso; siamo abituati solitamente a ritenere che siamo noi singoli individui a dover essere capiti e non ci preoccupiamo di comprendere cosa la realtà esterna cerca di comunicarci. Non è semplicemente questione di rispetto per l'ambiente, è capacità di empatizzare con il Tutto che il mondo rappresenta. La seconda è che la vicinanza della morte nei propri confronti cambia il modo di vedere le cose. La morte a me prima sembrava sempre lontana, forse troppo. Ora il fatto che in teoria chiunque si possa ammalare e morire me l'ha resa più vicina e quindi maggiormente accettabile. Heidegger parlava di essere-per-la-morte intendendo che la vita degli individui è progettata nei confronti della morte e trova senso rispetto ad essa. Il filosofo tedesco non intendeva riferirsi al decesso fisico, ma all'evento della morte inteso in chiave metafisico-ontologica, come destino proprio del singolo individuo e dell'umanità in generale rispetto al suo fondamento trascendente. L'adesione dell'individuo all'amor fati come lo intende Nietzsche impone di comprendere e di accettare quello che sta accadendo, ponendosi il più possibile nella condizione di “ascolto” della trascendenza.



                                                                                      

                                                                                                  Edoardo De Santis


La rivoluzione del lavoro durante e dopo il Coronavirus



Il perdurare già da un paio di mesi, o poco più per le regioni del nord Italia, di una situazione inedita e inimmaginabile di sospensione delle routines della vita quotidiana, dopo un primo momento di smarrimento per la pesante limitazione della libertà, compensata da qualche giorno dagli effetti positivi di un trend che comincia ad essere incoraggiante, impone oggi, anche come buon auspicio, di pensare al dopo-Coronavirus, a riflettere, cioè, come se ci fossimo già lasciati tutto alle spalle, su cosa potrebbe restare domani di questa brutta esperienza, quando torneremo tutti a lavorare, a salutare i nostri cari, a prendere aperitivi ai bar e a mangiare ai nostri soliti ristoranti.
Forse è ciò che il nostro profondo inconscio vorrebbe davvero e noi non possiamo negare, in queste circostanze, al nostro pensiero di elaborare riflessioni positive, ma poi ci tocca fare i conti con la realtà, guardare i dati e attrezzarci per rimettere insieme i pezzi del nostro paese a partire da azioni politiche concrete e iniziative economiche di ampio respiro.
In questi giorni abbiamo assistito inermi, senza poter interagire e manifestare adeguatamente e politicamente le nostre opinioni, a causa della limitazione anche del diritto di protestare pubblicamente, ad una serie di criticità in diversi settori nel sistema Italia e non solo.
È chiaro per tutti, ormai, che in assenza di un vaccino che giunga a debellare completamente la malattia, non ci resterà che ripartire gradualmente, perché prima o poi bisogna ripartire, con numerose precauzioni per la nostra incolumità ed è altrettanto chiaro a tutti che alcune attività non possono, per la loro natura eminentemente sociale e a stretto contatto fisico, più riprendere, giacché sarebbero davvero in pochi a voler rischiare la propria salute e, in ogni caso, non dimentichiamoci che questo stato di emergenza legislativa, in cui il regime liberale e deliberativo individuale è sospeso a fronte di decreti che ci dicono cosa possiamo e cosa non possiamo fare, durerà molto a lungo.
Ad ogni modo, c’è un aspetto che risulta interessante in questi giorni e che merita di essere analizzato attentamente sin d’ora, prima che sia troppo tardi, ed è legato al lavoro da casa, ribattezzato sintomaticamente smart-working, che tecnicamente dovrebbe significare “lavoro agile” e anche “lavoro intelligente”, anche se poi pare che nella lingua inglese nemmeno esista tale espressione, e che fu già regolato dalla Legge n. 81 del 22 maggio 2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” senza grandi conseguenze.
E già perché la svolta radicale ed epocale che il Covid19 ci lascerà in eredità a livello mondiale ha a che fare, nell’ambito delle trasformazioni economiche dei modi di produzione, con una incredibile accelerazione mondiale sulla flessibilità e sulla volatilizzazione fisica di tutti i lavori che finora erano svolti in presenza e ora, a causa della decretazione d’emergenza, giacché anche quella d’urgenza è cosa superata, sarà svolta tranquillamente da casa.
Questa rivoluzione economica che intacca i modi di produzione, soprattutto nell’ambito dei servizi, diventa oggi possibile grazie ad una informatizzazione a tappeto dei nostri paesi: il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha affermato chiaramente che la procedura di informatizzazione del paese doveva essere un’opera già conclusa (era uno degli obiettivi principali, non senza conflitti d’interesse, dei Casaleggio), ma adesso diventerà un imperativo per la gestione della pandemia, per la tracciabilità dei movimenti di ciascun soggetto, anche per quei pochi anziani rimasti nel piccolo paesino di montagna che non ha all’attivo nessun caso di positività al virus, possedere smartphone, connessione e applicazione in grado di monitorare costantemente i movimenti di ogni singola persona.
Ecco, questa informatizzazione forzata globale, e necessaria per certi versi, del nostro come di ogni singolo paese di ogni singolo Stato, che, tra le altre cose, imporrà l’implementazione della rete mediante 5G senza adire ad ulteriori discussioni e polemiche, perché anche quelle sono sospese fino a data da destinarsi, non tarderà ad essere sfruttata dal capitalismo, che ha l’incredibile forza di trasformarsi costantemente e di insinuarsi senza difficoltà in tutte le situazioni in cui, nonostante l’emergenza, si possa massimizzare il profitto. Insomma, l’immagine di questo capitalismo che non tarda ad approfittare della situazione undici anni fa a L’Aquila era rappresentata da chi, davanti all’ecatombe per un disastro naturale, vedeva, sghignazzando, nella ricostruzione una possibilità di estremo guadagno e oggi da chi, nell’ambito dell’editoria, si fa ritrarre in video e fregandosi le mani rassicura i suoi collaboratoti, dicendo che andrà tutto bene perché con qualche chiamata ha sistemato tutto e ha implementato i guadagni delle sue aziende: voilà, è il capitalismo che si aggiorna, signore e signori!
E allora la vera rivoluzione che nell’ambito dell’economia e nei modi di produzione ci lascerà in eredità questa pandemia avrà a che fare con la presa d’atto, perché di fatto lo si sta facendo, che metà del lavoro che prima si svolgeva in presenza all’interno di dispendiosi uffici localizzati, con l’informatizzazione forzata di tutto il paese, che ha costretto tutto il personale dipendente, giocoforza, ad adattarsi alle mutate condizioni lavorative e ad aggiornarsi, obtorto collo, sulle piattaforme disponibili online, si potrà svolgere anche tranquillamente da casa e non c’è dubbio che il capitalismo ci possa mostrare gli aspetti positivi di una siffatta svolta che pone l’enfasi sul fatto che si possa tranquillamente lavorare da casa.
Ecco, forse, però, un po’ di prudenza sarebbe necessaria. Aspettate a cantare vittoria, perché ogni volta che il capitalismo si reinventa, esso pensa soprattutto a sé stesso, alla massimizzazione del proprio profitto, non ai diritti e alle condizioni dei lavoratori, cui poi dovranno pensarci altri soggetti istituzionali in tempi in cui, chissà quando accadrà, la normale dialettica politica sarà ripristinata, nel frattempo il capitalismo continua ad agire indisturbato anche in condizioni d’emergenza, perché questa è la sua natura!


Michele Lucivero


 
Torna ai contenuti | Torna al menu